Ammaniti e la creatività

Biografia di Niccolò Ammaniti nato a Roma il 25 settembre 1966.

Il suo primo romanzo, “Branchie”, è uscito nel 1994 per la casa editrice Ediesse, ed è stato poi ripubblicato nel 1997 per Einaudi Stile Libero.
Insieme al padre Massimo ha pubblicato “Nel nome del figlio”, un saggio sui problemi dell’adolescenza.
Nel 1996 ha pubblicato per Mondadori la raccolta di racconti “Fango”; tre anni dopo è uscito, sempre per Mondadori, “Ti prendo e ti porto via”.
Con il suo romanzo successivo, “Io non ho paura”, uscito per Einaudi Stile Libero nel 2001, ha vinto il Premio Viareggio.
Nel 2006 ha pubblicato per Mondadori il romanzo “Come Dio comanda”, vincitore del Premio Strega, che compone, insieme a “Io non ho paura”, un ideale dittico sul rapporto padre-figlio.
Nel 2009 ha pubblicato il romanzo “Che la festa cominci”, nel 2010 “Io e te”, nel 2012 la raccolta di racconti “Il momento è delicato”, tutti per Einaudi Stile Libero.
Dai suoi libri sono stati tratti al momento cinque film: “L’ultimo capodanno” (di Marco Risi, 1998); “Branchie” (di Francesco Ranieri Martinotti, 1999); “Io non ho paura” e “Come Dio comanda” (entrambi diretti da Gabriele Salvatores, 2003 e 2008); “Io e te” (di Bernardo Bertolucci, 2012).
Nel 2014 è uscito in Dvd per Feltrinelli “The Good Life”, il suo primo documentario da regista.

Tratto da niccoloammaniti.it

Come Dio comanda, Niccolò Ammaniti

comediocomandaUn romanzo sulla sopravvivenza, sulla rabbia, sulla violenza e sull’amore.

Rino e Cristiano Zena: un padre e un figlio nella periferia romana, una vita dissoluta e precaria, uno spirito di sopravvivenza che lì spingerà oltre ogni limite, li trascinerà nell’abbandono e nell’aridità, dove violenza e affetto si confondono e perdono costantemente le motivazioni che li generano.

Rino è un padre violento, sciagurato, col vizio dell’alcol e delle donne, ma con una morale di vita “a modo suo” ferrea e sincera. Quest’uomo ha un punto fermo nella sua vita, una sola grande fede: suo figlio Cristiano. Vuole insegnargli a difendere se stesso perché nella vita non soccomba mai, e per farlo si spingerà fino a farsi spaccare il naso perché il ragazzo tiri fuori tutto il suo coraggio.
In primis, pur di non perderlo, rinuncerà al progetto che avrebbe potuto cambiare le loro vite, perché Cristiano non fa parte dei rischi della sua vita: lui è tutto quello che ha, l’unico valore per il quale lottare con le unghie.

Nel momento in cui Rino mostra al ragazzo la nuova pistola, gli dirà:

La libertà è una parola che serve solo a fottere la gente. Sai quanti stronzi sono morti per la libertà e nemmeno
sapevano cos’era? Sai chi sono gli unici ad averla? La gente che ha i soldi. Quelli si… Vuoi vedere qual è la mia
libertà? Questa signorina qui di cognome fa libertà e di nome fa 44 Magnum.

Cristiano, ragazzino timido ed irruento, sa di poter contare solo su Rino, suo padre. Lo emula, sopporta le sue stranezze e i suoi momenti negativi, cerca di renderlo fiero di lui fino all’ultima riga del libro. Ciò che li lega in modo indissolubile è la fiducia cieca che ognuno nutre nei confronti dell’altro: unico motore che fa muovere ogni cosa, unica energia che li porta via da ogni pericolo, anche da quello della morte.

I soli amici a condividere coi protagonisti di Come Dio comanda questa vita disgraziata sono Danilo Aprea e Corrado Rumitz, detto Quattro Formaggi. Il primo, nel vortice del senso di colpa per il lutto di sua figlia, arranca in un tentativo di sopravvivenza e nell’utopia di riconquistare sua moglie. Il secondo, fuori di senno ed incontrollabile, incrocia malauguratamente la vita di una giovane donna.

Entrambi disperati e in cerca di riscatto, vulnerabili come piume al vento, si impegnano con Rino in una rapina tanto rischiosa, quanto male architettata.

Sarà proprio durante la notte della rapina, col ritrovamento del cadavere di una ragazzina, che il destino di ognuno cambierà. Ogni personaggio cambierà strada, per sempre e tragicamente. È qui che Come Dio comanda sembra spaccarsi in due, tenuto insieme da una costante: l’amore feroce tra padre e figlio.

La struttura del racconto, infatti, è stata volutamente suddivisa dall’autore in due parti cronologiche: “Prima” (venerdì, sabato e domenica) e “Dopo” (lunedì, martedi e mercoledì). Nel mezzo tra le due, “La Notte”: è in quella notte che le certezze di ognuno si sgretolano, che la fedeltà all’amicizia diviene un valore trascurabile, che la pazzia prende piede e distrugge vite innocenti.

Il buio di quella notte divorerà tutti, nessuno escluso.

Un romanzo sulla sopravvivenza, sulla rabbia, sulla violenza e sull’amore; di fatto un romanzo struggente, in pieno stile Ammaniti.

Ogni lettore può percepire uno di questi aspetti in modo più intenso, secondo la sua prospettiva, ma quel che appare lampante è che ognuno di questi impulsi viene portato all’estremo: Rino e i suoi amici non conoscono le vie di mezzo, ci spingono in un abisso di rabbia, di frenesia, dal quale dedurremo che ogni atto della vita, persino la violenza, va indagato e non solo giudicato.

L’energia del romanzo di Ammaniti pulserà attraverso le pagine fino a raggiungere le frasi conclusive, in linea con lo stile di questo scrittore che sa tenerci col fiato sospeso per liberarci poi, inaspettatamente, sul finale.

Come Dio comanda ci spiega un’altra faccia delle realtà “difficili”del mondo d’oggi, mostrando che dietro la violenza e la rabbia, si cela sempre una storia dolorosa, che nessuno in questo mondo ha voglia di ascoltare o che semplicemente è troppo scomoda da penetrare: a nessun compagno di Cristiano interessa la sua storia, anzi in quella periferia a nessuno interessa di quei due, tranne a Beppe Trecca, personaggio di dubbia forza morale, anch’esso pronto al tradimento dei suoi princìpi, ma di grande fede.

Trecca incrocerà le loro vite a causa del suo lavoro: è il loro assistente sociale davanti a cui i Zena improvvisano periodicamente il teatrino della famiglia serena, ma sarà coinvolto molto di più da questa storia, più di quanto avrebbe potuto immaginare.

Niccolò Ammaniti, in questo romanzo più che in altri, si rivela eccellente pittore della desolazione adolescenziale e del degrado umano, senza lasciar nulla al caso, motivando ogni rancore, ogni pensiero dei personaggi, anche di quelli appena presenti nella narrazione. La sua spiccata capacità di cogliere le sfumature della sofferenza umana e presentarle al lettore con la sua scrittura, fa si che il nostro approccio a questa tragica realtà descritta sia attento e profondo, mai superficiale.

L’autore ci illustra la forma insolita con cui può manifestarsi un grande amore tra padre e figlio e l’immenso dolore dietro cui può nascondersi. Ci pone di fronte ai turbamenti e alla volubilità dell’uomo, dando spazio alla loro espressione, perchè un sentimento come la rabbia, ad esempio, spesso fa solo da scudo: è una ricerca disperata di attenzione, solo un tentativo di trovare un posto nel mondo. Il posto che Rino vorrebbe per Cristiano.

Tratto da Leggeremania

Booktrailer

5388_fotoSalvatores rilegge con sensibilità registica la favola nera di Ammaniti

In una landa desolata del Nord-Est Italia, tra cave di pietra, case sparse e anonimi centri commerciali, vivono un padre e un figlio. Rino Zena, disoccupato e ostinato, educa Cristiano, un adolescente timido e irrequieto che i compagni schivano e le ragazzine umiliano. Soli contro il mondo e contro tutti, hanno un solo amico: Quattro Formaggi, un disgraziato offeso da un incidente con i fili dell’alta tensione e ossessionato da Dio, dal presepio e da una biondissima pornodiva. Uniti da un amore viscerale, Rino e Cristiano tirano avanti un’esistenza orgogliosa che reagisce alla prepotenza del prossimo e all’ingerenza dei servizi sociali. Dentro una notte di pioggia e fango una ragazzina cambierà per sempre i loro destini.
Gabriele Salvatores raccoglie per la seconda volta la sfida di Niccolò Ammaniti. Eppure non si tratta veramente di una sfida, piuttosto di un completamento, di uno sviluppo, di una naturale trasposizione dalle parole alle immagini. Il regista milanese si mantiene infatti sostanzialmente fedele al dettato del romanzo omonimo, con qualche minima variante e alcuni interventi chirurgici. La sua operazione consiste nel lasciarsi il tempo di trattare ciò che ha scelto di conservare e nell’evidenziare la natura “cinematografica” del libro.
Così dopo il viaggio verso la coscienza e la disubbidienza (all’ingiustizia) di Io non ho paura, Salvatores gira un(‘altra) favola nera, affollata di lupi, agnelli e bambine col cappuccio rosso, che procede in direzione contraria e parallela dentro un cono d’ombra e nella risonanza panica del paesaggio. Dopo essere andato a Sud, l’autore si sposta nel lontano e mitizzato Nord, palesandolo e rivelandone i tratti spaventosi. Un luogo di sassi e fango abitato da tre personaggi immersi in un sordo rancore nichilista, che si trascinano giorno dopo giorno tra voglia di integrazione e profonda insicurezza. Come dio comanda descrive le ferite e le miserie di “precari” dell’esistenza sgradevoli e violenti. Una tipologia impossibile da integrare che riesce a trasmettere lo strazio della propria condizione umana per la verità che esprime e che vive di espedienti in una realtà dove tutti sono diventati troppo ricchi. L’impetuoso padre di Filippo Timi porta in sé una ferita che i servizi sociali hanno diagnosticato ma che non si preoccupano di guarire. Nessuno lo protegge o lo sostiene nel quotidiano, nessuno gli offre una chance per uscire da un’esistenza impedita a ogni possibile normalità. Zena è un soggetto inaffidabile, costretto a lottare contro la logica implacabile di un assistente sociale che minaccia di togliergli il figlio, unica e reale possibilità d’amore, e il loro elementare diritto di essere una famiglia.
Poi, il lampo di un temporale infinito scatenerà un evento al di sopra delle loro possibilità, qualcosa di inatteso che ha il carattere del destino. Coniugando una tragedia privata con il non senso collettivo, Salvatores si pone il problema di come continuare a fare del cinema a partire dalla realtà e dalle sue storie, senza ricadere nell’ambiguità morale della mimesi del reale. Imprime quindi alle immagini uno sguardo etico, che rispetta la complessità dei corpi messi in scena e degli accadimenti di cui si fanno veicolo. Quest’ordine di considerazioni si produce come volontà di guardare il prima delle vite dei tre protagonisti, che sfocia nella tragedia quotidiana del loro durante.

Prato, storia di un miracolo italiano

In passato un’eccellenza mondiale per l’industria tessile era fra le realtà economiche più produttive in Europa.

Una veduta storica della città di Prato
Una veduta storica della città di Prato

Prato è attualmente un comune italiano di 192.130 abitanti, capoluogo dell’omonima provincia. È la seconda città della #Toscana e una delle più grandi dell’Italia Centrale per numero di abitanti.

L’Industria Tessile

Nell’economia pratese la produzione tessile ha sempre svolto un ruolo di primissimo piano fin dall’epoca medievale, come testimoniano i documenti del famoso mercante Francesco Datini, ma è nell’Ottocento che Prato vide un impetuoso sviluppo industriale. Divenuto centro mondiale del commercio, sembrava un’immensa fabbrica vista dall’alto e una selva di ciminiere dove quotidianamente venivano prodotti 500 mila metri di stoffe, l’equivalente della distanza tra Firenze e Napoli.

Capitale italiana dell’iniziativa privata fu definita la “Manchester d’Italia”. Rappresentava 1/3 dell’industria nazionale ed era una fra le città più produttive d’Italia in cui “la gente aveva l’abitudine di svegliarsi prima di addormentarsi”. Con un orientamento alla produzione verso l’Europa, solo il 30% rimaneva in Italia, mentre il restante 70% veniva esportato nel Mondo.

L’industria laniera rappresentava a Prato un equivalente di 120 miliardi di lire annue rispetto ai 36 miliardi del restante territorio nazionale. Modesta e miliardaria era un comune della provincia di Firenze, il più grande centro mondiale dell’economia laniera, un colosso dell’economia italiana e uno fra i giganti produttivi d’Europa.

Qui studiò il poeta Gabriele D’Annunzio, allievo del Collegio Cicognini.

Qui le persone erano caratterizzate da forte serietàdisciplinarigidità e austerità che facevano del pratese un soggetto con un’indole orientata al lavoro e che permettevano a Prato di essere la città più mercantile e commerciale dell’intero territorio italiano.

Dall’artigianato si passò a delle basi industriali più meccanizzate, un fenomeno unico e anomalo dove non vi erano grattacieli e la cui materia base erano gli stracci, i cosiddetti “cenci”, che venivano rigenerati per produrre nuovi tessuti ai prezzi più competitivi sul mercato. Fu un fenomeno oggetto di osservazione di Inghilterra, Germania, Stati Uniti e Canada.

Dopo molto tempo Prato è riuscita a divenire capoluogo di provincia liberandosi da tutta una serie di impacci burocratici, non essendoci, ad esempio, una dogana e una camera di commercio che non ne hanno comunque frenato lo sviluppo.

Tratto da Blastingnews

Prato, i pratesi ed i telai. Documentario RAI “Ritratti di Città” del 1967